venerdì 21 febbraio 2020

Don Achille


Parlava in terza persona: Te lo dice Achille Torelli. Queste cose non le devi ripetere ad Achille Torelli. Pronunziava Achille con due c: Acchille.


Parlava in terza persona e fingeva distrazioni e amnesie. Chiamava di Giacomo de Giacomo e qualche volta usciva di casa senza cappello, ch’era a quel tempo uno scandalo, perché il genio è distratto. Gli era capitato di mettere al mondo una decina di belle ragazze, ma la primogenita le aveva ammazzate tutte.

Don Achille era nato su di un trono. Figlio di un giornalista ch’era amico di Ferdinando II e di Dumas, era venuto al mondo quasi in carrozza, mentre sua madre, una Tomasi di Lampedusa (il Gattopardo scenderebbe per li rami?), tornava dalla passeggiata per via Toledo. La signora fece in tempo a salir le scale del palazzo ch’era in piazza San Ferdinando.

Il neonato fu tenuto a battesimo da Donizetti; a vent’anni combattette a Custoza e fu ferito, a ventisei scrisse 7 mariti. Verdi lo elogiò, Manzoni fece il resto con l’invio di una fotografia con dedica. Una serie di sventure.

Andiamo a trovare don Achille. Riceveva alla biblioteca di San Giacomo, in via Concezione a Toledo. Gli occhi umidi e dolci, un largo berretto di lana sui capelli troppo neri per non esser di­pinti, le mani belle e sottili, in poltrona, ch’era il suo ultimo piedistallo, come diceva, e un plaid a quadroni sulle ginocchia. Sembrava che fosse in carrozza.

In lotta col mondo accademico napoletano che gli faceva mille dispetti, gli negava l’ingresso ne­gli istituti di cultura, non prendeva sul serio i suoi scritti di estetica e di filosofìa, nessuna delle sue venti commedie rappresentate, punzecchiato con storielle e barzellette sulla sua vanità, su sue finte distrazioni per darsi arie da grand’uomo, il vec­chio si vendicava storpiando nomi e scrivendo epigrammi. Celiavano anche su Custoza. Qualche vol­ta il vecchio, premendosi il fianco con la mano, di­ceva: Ah! la mia ferita.... E gli astanti sorri­devano.

Aveva capito il suo dramma: Per i giovani - fa dire al personaggio di una sua commedia -, per i giovani nessuna condizione più difficile che tro­varsi al domani di un grande successo. Non appena si è sul piedistallo comincia una lotta accanita, fe­roce: Discendi!. Don Achille non voleva discen­dere. La parola che ricorreva sempre nei suoi di­scorsi era il piedistallo, il mio piedistallo:

Ben tu dicesti il mondo è fatto a scale 
C’è chi le scende e c’è chi le sale 
Chi va nel fondo e chi poggia alla cima; 
Dal piedistallo mio che tu discalzi 
Io scendo, e tu sublime 
Con le orecchie ti innalzi.

L'epigramma fu scritto per il Verdinois che doveva essere tra quelli che lo invitavano a scen­dere. Alla fine quelle sue commedie, quei Mariti benedetti gli dovettero venire in uggia: Oh Les maris: quel chef d’oeuvre! (Oh, I Mariti, che capolavoro, ndr) gli aveva scritto un critico francese. Ne m’en parlez pas: c’est un monstre qui a devoré tous mes enfants! (Non parlarmene, è un mostro che ha divorato tutte le mie creature, ndr) fu la risposta del povero padre delle venti infelici Ifigenie immolate sull’altare di quella trionfale sorella.

Mi accompagnate a casa?. Abitava in via Fla­vio Gioia, un palazzetto della cadente Napoli di sezione Porto.
È qui - disse - che potrebbe sorgere un teatro d’arte, ho dieci commedie inedite, guarda quanto spazio!. Intorno, difatti, non c’erano che rovine.
Per le scale mi chiese anche di di Giacomo : E de Giacomo che fa?
Di Giacomo aveva tradotto in napoletano I mariti. Ma il titolo della commedia in dialetto è mio - disse don Achille -, mio!...». Il titolo era Lu buono marito fa la bona mogliera. Il buon ma­rito fa la buona moglie.

Nel salotto gli attori e le attrici che avevano recitato nei Mariti. Nomi favolosi: Bellolti-Bon, Giacinta Pezzana, Ernesto Rossi, Salvini. In ci­lindro e redingote gli uomini, seni e braccia da lottatrici le donne e, al centro dell’Olimpo, in una cornicetta, una fotografia sbiadita: la fotografia di Alessandro Manzoni. In redingote, anche lui, ma­gro e bianco, il gomito poggiato ad una consolle, l’autore dei Promessi, aveva scritto: Ad Achille Torelli, poc’anzi speranza e già onore del teatro italiano, il povero originale: Alessandro Manzoni.

Due vecchi, ormai, uno in fotografia e l’altro ancora in piedi. Al centro della parete un grande ritratto di sconosciuto: un bellissimo giovane, un ufficiale dei Cavalleggeri Guide, nel quale era impossibile ravvisare il settantenne che mi era dinanzi.
Dal capo della strada sottostante, allora sede dei battitori di rame, veniva a intermittenza un fragore infernale.

- È qui che vorreste far sorgere il vostro teatro?. Don Achille chiuse le imposte.
- Passiamo nello studio disse. E dopo una pausa:
- Ti posso fare una confidenza? Mi sono spo­sato. Ma, nel dirlo, mi poggiò una mano sulla spalla. Temeva forse una mia imprudenza, una parola avventata, un giudizio, una condanna, una stupidità facile a uscire dalla bocca di un giovane, e il vecchio con quel gesto voleva quasi im­pedirmelo. Poi aggiunse: Ho in casa il pa­radiso, credimi, il paradiso...
S’era sposato qualche giorno innanzi con una signorina di ottima famiglia, una maestrina cinquantenne.
Il paradiso.
Disse proprio così colui che aveva scritto che lu buono marito fa la bona mogliera...

(Tratto da "Napoli sempreviva", di Carlo Nazzaro)

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