mercoledì 17 marzo 2021

Ringraziamenti


Mi chiamano professore, dottore.
Io, invece, non sono nulla, perché non mi sono laureato. 
Ho cominciato l'università, però già lavoravo. 
Ho lasciato perdere; poi la guerra 
mi ha impedito di finirla, facevo Architettura. 
Mi chiamano dottore. 
Ma io sul biglietto da visita posso scrivere "prof." 
e potrebbe dire "profugo", "profilattico", "profeta"...

Benito Jacovitti


Giocavo a pallone e iniziavano a farmi male le ginocchia. Avevo all’incirca nove anni, se non ricordo male. Mi trovavo sul lettone dei miei genitori. Mio padre stava cercando di capire come mai avvertissi quel dolore. Con i polpastrelli premeva ai lati delle ginocchia. Premeva sempre più forte ed io avvertivo quel fastidio sempre di più. Dopodiché si è fermato, ha arricciato la fronte e ha emesso la sua diagnosi: mi sa che è il morbo di Osgood-Schlatter. Dopo qualche giorno, mi portò a fare una radiografia. Che te lo dico a fare: da bravo clinico aveva indovinato. Benché all’epoca provassi un misto di rammarico, nel dover sopportare che non avrei potuto giocare a pallone per un bel po’, e di orgoglio, perché conoscevo una patologia dal nome così contorto, ho sempre conservato questo ricordo perché... No, non è stata questa la volta in cui ho deciso di diventare un medico: sarebbe troppo enfatico.
Sono da Angela, nel salone di casa Giacometti. È questo il nome che abbiamo dato alla sua abitazione di Napoli. Tutto sommato, sul campanello è scritto così. Anche se non è il dottor Giacometti ad essere il proprietario di casa. O meglio, non lo è più: l’ha venduta qualche anno fa ad un simpatico signore che ha deciso di far fruttare il suo nuovo investimento affittando l’immobile a studentesse fuori sede. Solo le camere da letto sono state rinnovate, il resto è rimasto com’era prima. Anche se un po’ dismesso, un arredamento pregiato, d’altri tempi. In questo salone, la vita di famiglia è rimasta impressa sui marmi glaciali del pavimento, sui parati finemente damascati, i mobili in noce, il tavolino in oro zecchino tra i divani e le poltrone tappezzate di stoffa floreale. È in questo riecheggiare di eleganza e contemplazione dove ho sostenuto i miei ultimi quattro esami. Quattro esami in quattro mesi. Quattro mesi con la convinzione di essere assistito dall’influenza positiva di un vecchio ginecologo – una tesi di laurea sulla menopausa, che coincidenza! Ma, al di là delle mie certezze, quattro mesi di paziente sopportazione della mia incombente presenza da parte di Angela e della sua coinquilina, Valeria, alle quali sarò sempre riconoscente.

I ringraziamenti. Qualche mese fa nemmeno ci pensavo a farli. Non per ingratitudine, ma perché ritenevo la mia tesi ben lontana dall’essere un capolavoro letterario degno d’una sezione dedicata. Il mio solito rigore. La mia solita fiducia.

Mia madre è la prima persona alla quale sento di manifestare profonda gratitudine. Ha visto nascere in me l’intenzione di intraprendere questo lungo e impegnativo percorso, trovando il modo, non affatto semplice, di lasciarmi ampio arbitrio sui modi e i tempi di condurlo. Capacità dimostrata fin da quando decisi, all’età di quindici anni, di entrare in una scuola militare. Per poi cambiare idea, dopo aver vinto un concorso ed aver vissuto in caserma per due mesi. In realtà, non ho esattamente cambiato idea: durante le selezioni, infatti, risposi agli esaminatori che avrei voluto essere un Medico Ufficiale, e non il contrario - come si aspettavano di sentire. Dunque, mi ha visto crescere da studente in Medicina, e mi ha cresciuto, come ha fatto con mio fratello, nell’assenza di un genitore andato via troppo presto. Sono l’orfano di un medico. Ho perso un padre, ma non la determinazione di rimanere un figlio d’arte. Sarò presto un medico - anche se, di sicuro, non sarò mai un Ufficiale.

Mio fratello è sempre stato di poche parole. Negli ultimi tempi anche nervoso. Ha dovuto fare i conti con la vita, scegliere di andare lontano per cogliere le opportunità che gli si sono presentate, anche se non gli andavano giù del tutto. A lui va la mia gratitudine, perché, nonostante le nostre manifestazioni asciutte, sappiamo bene che l’amore non è fatto di sola forma, ma anche e soprattutto di contenuti. Ed io ho la certezza che, nonostante i silenzi, abbia sempre urlato e fatto il tifo per me.

Angela mi è sempre stata accanto. Sono passati dieci anni da quando ci siamo conosciuti per la prima volta al suo compleanno. Lavoravo come disc jockey alla sua festa di diciott’anni. Lo so, sembra la trama di una commedia americana. Ero ai primi anni di Medicina, da poco tornato da un Erasmus che mi era servito per trovare il coraggio di affrontare l’esame insormontabile, Anatomia Umana. Da allora, non mi ha mai lasciato solo. È dovuto trascorrere un altro anno prima di vincere la paura, ma lei ha continuato a supportarmi - e a sopportarmi - seguendo dal vivo tutti i miei risultati e, spesso, subendo il mio sconforto, che come un’ombra si è dilungata allontanando il termine del tragitto. È il buio della notte a svelare chi ti starà accanto per una vita intera, non la luce di un tramonto che rassicura l’animo nel calore dei sorrisi.

I miei amici, quelli fraterni, hanno sempre creduto nelle mie capacità. Desidero ringraziare Antonio, primus inter pares, con il quale ho sempre condiviso i valori della Vecchia Scuola, quella autentica, quella clinica, dei nostri padri e dei nostri nonni. I suoi occhi hanno sempre visto questi valori cuciti su di me, come un vestito sartoriale - per dirla a modo suo. È per questo che ho voluto che fosse lui a scegliere la cravatta che indosserò il giorno della laurea.

Daniele, le mie radici, uno stravolgitore fin dai tempi delle scuole primarie, quando fece la sua comparsa in seconda elementare, polarizzando da subito la mia esuberanza. Il tempo ci ha tenuti separati a tappe, facendoci però sempre ritrovare, anche adesso che vive a centinaia di chilometri di distanza, anche dopo che la sfiducia mi ha colto, facendomi sentire non degno della straordinaria persona che è diventata. Pragmatico ed ironico, ha sempre saputo imbrigliare il mio idealismo nel modo giusto, per riportarlo a terra.

A Gianpaolo va la mia gratitudine per aver condiviso con me parte del suo percorso di studi, benché abbia scelto di dedicare la sua vita ad altro. Sono stati innumerevoli i giorni trascorsi insieme, intorno allo stesso tavolo, io con i manuali di Anatomia, lui con i suoi testi di Diritto. Nessun punto in comune, quindi; se non solo quello di voler vedere realizzato il sogno di un amico, la cui sfiducia ha rischiato troppe volte di mandare in frantumi.

Elio, orgoglioso, ma amorevole. A me si è mostrato anche in quest’ultimo aspetto più profondo, difficile da carpire in superficie. Lo ringrazio, perché so bene quanto sia difficile per lui fidarsi, soprattutto per quanto riguarda la salute, tenendo sempre in gran considerazione i miei appassionati consigli, quelli che si chiedono proprio all’amico che sta a Medicina. Sarà di sicuro il mio paziente più intransigente.

Simona, l’amica sempre presente al momento del bisogno, senza mai chiedere nulla in cambio. La ringrazio per avermi insegnato cosa significhi donarsi completamente al prossimo ed ascoltarlo. Qualità essenziali alle quali dovrò affidarmi per tutta la carriera: sarà lei ad essere la mia fonte di ispirazione.

Ringrazio Pio, amico di lunga data, con il quale ho trascorso gli anni dell’adolescenza, per poi continuare a crescere insieme, sebbene in parallelo, per fare ognuno le proprie esperienze. Ma rimescolandoci tra le ventate d’aria nuova che la vita ci ha riservato, fino a diventare compari. A lui va la mia riconoscenza, per non aver mai mutato la sua considerazione per il mio valore, attendendo silenziosamente che arrivasse il giorno della mia proclamazione.

Ringrazio Luigi, storico compagno di studi. Forse, se avesse scelto di intraprendere la mia stessa strada, oggi sarei già specializzato, tanta era l’energia che eravamo capaci di sprigionare insieme con la nostra collaborazione; un medico specializzato con un grande senso dell’umorismo, più di quello che non abbia già, tanta era l’ilarità che riuscivamo a trarre, nonostante i nostri spiriti inquieti. Voglio ringraziarlo, perché anch’egli non ha mai smesso di vedere in me ciò che ha sempre creduto di me.

L’Università è stata un banco di prova molto difficile. Il trauma del test non superato al primo tentativo. Il trauma di dover lasciare una Facoltà, quella di Biologia, dove avevo raggiunto brillanti risultati, ma che non era la strada giusta. Il trauma di dover iniziare da capo e di non ricevere più la stessa ammirazione. Con il tempo, si è aggiunto anche il ritardo negli studi, dovendo rinunciare alla frequentazione quotidiana di quei colleghi con i quali avevo stabilito una promettente intesa. Mi sono passati avanti come treni, come delle comete sono transitate lungo il percorso. Ma c’è qualcuno che ha deciso di rimanere a me legato, nonostante il divario formativo, nonostante la mia tendenza a ritirarmi. Perché in qualche momento, devo ammetterlo, mi sono sentito inadeguato. È per tali motivi che ringrazio Andrea, oggi brillante cardiologo, un amico prima che un collega, per aver dimostrato di tenere a me nonostante sia passato così tanto tempo dall’ultima volta che abbiamo seguito una lezione insieme. Anche adesso che ci siamo ritrovati, ma stavolta con ruoli diversi, lui docente ed io discente. L’autunno racconta alla terra le foglie che ha prestato in estate. Ha terminato con questo aforisma di Lichtenberg la sua sorprendente lezione di Cardiologia di otto ore per la preparazione al concorso di specializzazione. Terrò queste parole a mente per i prossimi mesi, quando tenterò di raggiungere il mio prossimo traguardo.

I mesi trascorsi in Erasmus a Barcellona mi hanno fatto maturare. E non mi riferisco solo all’indissolubile rapporto d’amore che è venuto a crearsi con una città che sento, tuttora, la mia terra d’origine elettiva. A Barcellona ho imparato a cucinare, pulire casa, fare la spesa e stirare la camicia prima di uscire. Oltre a scoprire che anche i professori possono salutare per primi e che, nel giorno del loro compleanno, dopo una lunga lezione, hanno piacere di festeggiare insieme ai propri studenti. In quei mesi passati lontano casa ho avuto la fortuna di vivere e condividere la mia esperienza universitaria ad Hospital Clinic, il policlinico universitario di Barcellona, insieme a due colleghi eccezionali, Alessandro ed Ernesto. Ormai è passato tanto tempo dall’ultima volta che ci siamo visti o anche solo sentiti, ma voglio ringraziarli per tutti i momenti trascorsi insieme. Negli ultimi mesi ho ritrovato il loro ricordo nella determinazione che mi ha portato a chiudere definitivamente i conti, proprio come loro facevano prima del examen de Farmacologia General, quando da forsennati ripetevano tutta la notte i nomi degli antibiotici, in una casa a soqquadro da settimane, a causa degli incombenti esami di fine semestre. Ovunque essi siano, sono sicuro che adesso sono entrambi dei professionisti eccellenti.

Ho dovuto attendere parecchio prima che l’Università tornasse a farmi emozionare. È per tale motivo che non dimenticherò mai gli anni trascorsi nel laboratorio teatrale de La Strategia del Silenzio. La Medicina prestata al Teatro, il Teatro alla Medicina. Teatrale o medico che sia, questo tipo di pedagogia mi ha insegnato cosa sia l’empatia molto più delle ore trascorse in reparto. Il tecnicismo lascia poco spazio al rapporto medico-paziente. È indiscutibile, invece, il beneficio tratto dal casuale, necessario e obbligato mondo dell’improvvisazione teatrale, che ha visto consumare il pavimento dell’Aula Magna di Santa Patrizia, sotto i piedi mossi dal corri, cammina. È tra queste traiettorie scandite in cinque fasi che ho conosciuto delle qualità irripetibili - come gli etjud che ne sono venuti fuori: l’irriverente spontaneità di Catello, la delicata eleganza di Francesca, l’inesauribile idealismo di Gaia, l’iperuranica imprevedibilità di Giuseppe, la gigantesca capacità compositiva della cadetta Helena, la prorompente esuberanza di Maria, il magnetico ribellismo di Maria Livia, i silenzi che sanno ascoltare di Sonia, la pungente generosità di Stefano. Tutti troppo unici per rimanere solo dei colleghi. A questi amici va la mia gratitudine, per aver dato colore al porfido dell’accademia nozionistica.
Ringrazio il prof. Ciro Gallo, il quale è stato - a sua insaputa - un riferimento importante in questi lunghi anni. A lui va tutta la mia riconoscenza per aver trasmesso degli insegnamenti capaci di andare oltre i programmi didattici. Sintesi ed analisi critica sono qualità che sento di aver acquisito grazie alla sua perseveranza ed intransigenza. Tuttavia, ciò non gli ha impedito di ideare un’attività - quella del laboratorio teatrale, poc’anzi menzionato - capace di dimostrare che anche un rigoroso biostatistico sia capace di affezionarsi ad un manipolo di imprevedibili studenti e di commuoversi per la loro affezione. E, sebbene non digerirà mai la mia affermazione, che la Medicina è prima di tutto un’arte, è stato proprio lui ad evitare che in una scuola di Medicina si prosciugasse l’Arte.
Ringrazio Salvatore Cardone, o meglio Sasà, il pedagogo e regista teatrale senza il quale quest’esperienza teatrale non avrebbe potuto svilupparsi. L’imprevedibilità del suo metodo ha creato un contesto solo apparentemente privo di regole, perfetto per far maturare la consapevolezza dell’autonomia e promuovere la creatività. Senza tali qualità non è possibile liberarsi dai problemi, soprattutto quelli complessi, come quelli che un giorno sarò chiamato ad affrontare da medico; un ulteriore elemento a riprova che l’Arte sia indispensabile per una Medicina buona, di qualità. A lui va, inoltre, il merito di aver stravolto i miei schemi compositivi, di avermi fatto vedere la Poesia con un paio d’occhiali nuovi. Una metafora casuale, obbligata e necessaria, come il richiamo al marchio di Studio Orale.

Mi hanno sempre chiamato dottore, molto prima di diventarlo davvero. Forse è per tale motivo che ci ho messo così tanto tempo... Che enorme baggianata!
Una cosa devo riconoscerla. Le persone rievocate in queste pagine hanno creduto in me più di quanto non l’abbia fatto io. Scrivere di loro mi ha fatto riflettere di quanto in esse abbia trovato l’occasione di ricordare il mio valore. E in esse lo ritroverò, semmai dovessi dimenticarlo un’altra volta. Io non sono nulla, disse Jacovitti in un’intervista. Ma nemmeno sono nessuno, aggiungo io. Non è una questione di titoli. Il valore è volere. Volere è piacere, anche a sé stessi.

Pierpaolo

Nessun commento:

Posta un commento

Vuoi commentare? Sei libero di farlo. Ma ricorda: siamo su una pagina civilizzata. ;)